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Archivio storico di un giornale non più attivo

ANALISI DELLA SITUAZIONE NEL KURDISTAN SIRIANO E CONSIDERAZIONI

Sulla telefonata intercorsa tra il Presidente Turco Erdogan e Trump del 14.12.2018, nel corso della quale il Presidente americano ha annunciato un repentino quanto inaspettato ritiro dal kurdistan siriano, e su tutta la giostra di contraddittorie dichiarazioni che Trump stesso ha inanellato nell’ultimo mese, abbiamo già diffusamente parlato qui .
In un primo momento la ritirata USA dalla Siria è stata dichiarata come immediata, poi lenta, poi lenta e concordata con la parte turca.

L’ultimo notizia sul confronto USA-Turchia è di oggi, 08 gennaio. Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale USA, John R. Bolton – dicendo di parlare a nome del Presidente – ha posto due condizioni per la ritirata: la totale sconfitta dell’Isis sul territorio controllato dai curdi e la garanzia turca che le milizie curde (YPG) alleate degli Stati Uniti, non verranno attaccate. Questa dichiarazione è stata fatta alla stampa prima che Bolton giungesse in Turchia per un incontro programmato con le massime autorità di quel Paese.
Il Presidente turco Erdogan ha risposto a mezzo stampa, ed ha detto che la richiesta di Bolton di non attaccare le milizie curde è inaccettabile. Ha aggiunto che persone diverse dell’Amministrazione Trump gli mandano messaggi contrastanti (e con questo Erdogan farebbe intendere che tra il Presidente americano ed il suo Consigliere per la Sicurezza non ci sia identità di vedute).
Inoltre Erdogan ha ribadito che la preparazione dell’operazione militare per attaccare i curdi siriani è in gran parte completata e che nulla e nessuno potrà impedire il fatto che essi ricevano “la necessaria punizione”.
Ancora più chiaramente di Erdogan si è espresso un paio di giorni fa il suo ministro degli esteri, il quale ha dichiarato: “Seppelliremo i miliziani curdi delle YPG nelle loro trincee”.

Oggi Erdogan si è rifiutato di incontrare l’inviato della Casa Bianca, Bolton, arrivato in Turchia. Dice che parla solo con Trump.

La frase di Erdogan di oggi: “Il fatto che i Curdi facciano la guerra all’Isis è una enorme bugia”, detta a nemmeno 24 ore di distanza dalla morte in battaglia di 32 militari curdi che stavano combattendo contro l’Isis nella valle del medio-Eufrate, si commenta da se.
La situazione di stallo tra USA e Turchia in realtà non si è mossa di un millimetro: USA e Turchia sono formalmente Paesi alleati e membri importanti della NATO, ma i Turchi vogliono attaccare i Curdi in Siria, e i Curdi sono stati e sono i migliori alleati degli USA – e dell’occidente – nella lotta all’Isis.

Vediamo a grandi linee  come si è arrivati a questa situazione e quali sono le manovre sul campo.

LE PREMESSE

Rojava: cos’è il Kurdistan siriano.

Nel 2012, durante la guerra civile esplosa in Siria, l’esercito del dittatore siriano Bashar al-Assad fu costretto a ritirarsi dalle aree del Paese abitate in prevalenza dalla minoranza Curda.

Il 2014 vide l’avanzata dell’ISIS nei territori della minoranza Curda, a resistere rimasero  le Unità di Protezione Popolare (YPG): molti ricorderanno la città di Kobane come il primo luogo dove la resistenza delle milizie curde fermò  finalmente l’avanzata dei tagliagole di Abu Bakr al-Baghdadi.
A partire dal 2015 le forze curde iniziarono la grande controffensiva che, sostenuta dalla coalizione internazionale a guida USA, ha portato alla quasi totale distruzione dello pseudo Stato Islamico (Isis) nella Siria orientale.
Nel corso della controffensiva le neo-costituite Syrian Democratic Forces (SDF) a guida Curda sono state la fanteria da battaglia che, al prezzo di un altissimo tributo di sangue, ha combattuto l’Isis in collaborazione con le forze speciali, l’artiglieria e l’aviazione di USA, Francia e Gran Bretagna.
Le SDF sono state sino ad ora i migliori alleati degli USA e dell’occidente nella guerra all’Isis e attualmente sono impegnate in una feroce battaglia, che dura da settembre, per eliminare le ultime roccaforti dei jihadisti nel sud est della Siria, sulla sponda orientale del fiume Eufrate, ai confini con l’Iraq.

Nel 2016, ufficiali curdi, assiri ed arabi hanno proclamato la nascita della Federazione Democratica del Rojava – Siria del nord.

Il peggior nemico dei Curdi: la Turchia.

Da più di vent’anni la minoranza Curda in Turchia si batte, a mano armata, per ottenere una qualche forma di autonomia dei propri territori,grosso modo situati nell’area sud occidentale del Paese, ai confini con la Siria. La lotta tra lo Stato turco e la guerriglia Curda ha prodotto in questo periodo di tempo circa 40.000 morti. La Turchia vede come un grande pericolo la formazione di una entità statuale curda appena al di là dei propri confini ed accusa le Unità di Protezione Popolare (YPG) del Kurdistan Siriano di essere un’organizzazione terroristica.
Nell’estate del 2014 le Turchia ha lanciato l’operazione “Scudo dell’Eufrate”, che ha spezzato in due l’area controllata dai curdi che si stava costituendo sull’intero confine nord della Siria.
All’inizio del 2018 i carri armati turchi hanno superato il confine siriano occupando il cantone curdo di Afrin, nell’estremo occidente siriano, con l’operazione “Ramoscello d’ulivo”.

USA-Turchia, il punto di massima frizione: Manbij:

Manbij è una città di circa 80.000 abitanti, abitata da arabi e curdi.Nel corso della guerra civile siriana è stata occupata prima dal Fronte al-Nusra (branca siriana di al-Qaeda), poi dall’Isis. I curdi l’hanno strappata all’Isis nel 2016, con l’aiuto degli Americani, dopo una durissima battaglia. I Turchi non vogliono le milizie curde a Manbij, tra le altre cose perché Manbij è situata ad occidente del Fiume Eufrate e i Turchi non vogliono presenza militare curda ad occidente dell’Eufrate. Sono due anni che i Turchi vogliono attaccare Manbij; a fermarli ci hanno pensato gli USA, inviando a Manbij personale americano che sventolava la bandiera a stelle e strisce bene in vista sulle camionette. Poi gli USA hanno iniziato una estenuante trattativa con la Turchia, che ha portato fino ad ora a pattugliamenti congiunti turco-americani all’esterno della città. Ma i Turchi sostengono che questa trattativa è solo un sistema per tirarla per le lunghe: i Turchi vogliono Manbij e ad ottobre hanno apertamente dichiarato che avrebbero attaccato; non lo hanno fatto, ma a a novembre il Presidente Turco Erdogan ha ribadito senza mezzi termini la volontà di conquistare Manbij ed ha iniziato ad ammassare truppe alla frontiera con la Siria.

 

Il colpo di scena:

Il 14 dicembre, nel corso di una telefonata con il presidente turco Erdogan, il quale batteva sul solito tasto: “Tu preferisci i Curdi a me, ma guarda che la Turchia è un tuo alleato nella NATO”, Trump sbotta: “OK, (la questione Siriana) è tutta tua. Noi abbiamo finito”.

Al netto delle dichiarazioni successive questa mossa di Trump ha fatto saltare tutti gli equilibri siriani. Vediamo cosa sta accadendo in questi giorni.

La situazione sul campo:

I TURCHI: la Turchia aveva già iniziato ad ammassare le proprie truppe in preparazione ad un attacco al Kurdistan prima della “telefonata-choc”di cui si parlava prima. Dopo quella telefonata le operazioni sono proseguite con maggiore celerità, l’esercito turco sta eseguendo in questi giorni un preciso ordine di battaglia. Le milizie filo-turche presenti nella Siria del nord sono state mobilitate e si sono schierate a semicerchio intorno alla città sotto controllo curdo di Manbij. Questa forza viene valutata in circa 15.000 uomini che sono stati organizzati in tre distinte formazioni di combattimento. Alle loro spalle sono schierati i carri armati Leopard dell’esercito Turco, l’artiglieria e le squadre speciali. Si registra un concentramento di forze anche intorno alla cittadina curda di Kobane;queste forze sembrerebbero organizzate per una manovra a tenaglia oltre il confine.

GLI AMERICANI: gli Americani sono presenti dentro la città di Manbij, insieme a truppe francesi, e continuano i pattugliamenti all’esterno della città.
A sud, sul confine con l’Iraq, la coalizione non ha mai smesso di supportare la battaglia contro le ultime roccaforti dell’Isis delle milizie curdo-arabe (SDF). Tra il 16 ed il 29 dicembre scorsi sono stati registrati 469 strike della coalizione “Inherent resolve” tra attacchi aerei e di artiglieria. Tra l’altro l’offensiva delle SDF sta, per quel che si può capire, andando finalmente bene. L’Isis ha perso molto terreno negli ultimi giorni e soprattutto pare che non riesca più a trattenere i civili come scudi umani, il che velocizza di molto la battaglia.

I SIRIANI: dopo l’annuncio di un immediato, quanto inaspettato, ritiro di Trump dal kurdistan siriano le truppe di Bashar al-Assad si sono interposte tra le milizie filo-turche pronte ad attaccare la città e le linee di difesa delle YPG curde.

…Facciamo un riassunto: dentro a Manbij ci sono gli Americani, intorno a Manbij ci sono le camionette di pattugliamento americane, poi c’è la linea di difesa curda, poi la linea di interposizione dell’esercito siriano, a pochissima distanza dai siriani le linee dei ribelli filo-turchi pronte all’attacco.

I CURDI: i Curdi si sono sentiti un attimino pugnalati alle spalle da Trump. La loro scelta obbligata è: meglio stare sotto i Siriani che sotto i Turchi. Quindi stanno cercando in questi giorni, in queste ore, di fare un accordo con il dittatore siriano Bashar al-Assad. A questo scopo hanno chiesto la mediazione dei Russi. La proposta curda è quella di schierare l’esercito siriano ai propri confini con la Turchia, ed avere in cambio la possibilità di formare una regione autonoma nello stato siriano. Bashar al-Assad questa proposta l’aveva già ricevuta questa estate e l’aveva rifiutata. Vedremo sa la mediazione russa porterà dei risultati.

Quali sviluppi?

Nessuno vuole un intervento Turco nel kurdistan siriano.
Non lo vogliono i Russi, i quali giocano il ruolo di stabilizzatori del Paese e dunque non hanno alcun interesse a essere risucchiati in una fase “turca” della interminabile guerra civile siriana.
Non lo vuole il regime siriano di Bashar al-Assad, il quale ha ovviamente come obiettivo quello di riportare l’intera Siria sotto il proprio controllo.
L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, con l’Egitto, vedono come il fumo negli occhi qualsiasi espansione del potere turco fuori dai propri confini. La Turchia, con l’avvento al potere di Erdogan, è diventato (con il Qatar) il Paese-guida della Fratellanza Musulmana. E la Fratellanza musulmana è il peggior nemico dell’Egitto e delle Monarchie del Golfo. I Fratelli musulmani scampati alla repressione del nuovo Raiss egiziano,Abdel Fatah Al-Sisi, si sono rifugiati in Turchia; allo stesso modo la Turchia offre ospitalità ai Fratelli Musulmani perseguitati nella penisola araba.
Non è un caso che gli Emirati Arabi Uniti si siano affrettati in questi giorni a riaprire la propria ambasciata in Siria. Non è un caso che, a tambur battente, si stia cercando di riammettere la Siria nel consiglio della Lega Araba. Dietro operazioni di questi tipo ci deve essere necessariamente la luce verde dell’Arabia Saudita.
Sembrerebbe dunque che le monarchie del golfo abbiano deciso che la guerra civile in Siria è perduta, e che ora il loro compito principale non è più quello di supportare i ribelli – come hanno fatto in passato – ma di contenere l’espansionismo turco.

Israele è forse il Paese meno coinvolto dalla minaccia turca, vista la distanza tra il kurdistan siriano e i propri confini. Ma certamente Israele si augura che il ritiro americano dal kurdistan non avvenga, essi temono che questo lascerebbe un “vuoto” che potrebbe essere riempito dalle milizie iraniane.

Il cuore della questione

Nessuno vuole che la Turchia attacchi i Curdi ma chi vuole far la guerra alla Turchia? Se Erdogan dovesse giocare la carta dell’azzardo e lanciare i propri carri armati all’attacco, quale Paese avrà il coraggio, militare e politico, di opporsi? Per questo in Kurdistan era ed è necessaria la presenza militare USA, la Turchia non avrebbe potuto permettersi di colpire un solo soldato statunitense senza incorrere nelle ire militari ed economiche della più grande potenza del mondo.
L’indecisione di Trump, il suo tira e molla: “mi ritiro, in fretta piano, a certe condizioni, mi ritiro certamente ma forse anche non completamente…” ha reso tutta la situazione più instabile, la Turchia più baldanzosa, il pericolo di nuove stragi più grande.
Nel caso di una ulteriore ripresa della carneficina siriana in “salsa ottomana” molte conseguenze sono imprevedibili ma almeno una è certa: la rinascita dell’Isis. Per i tagliagole pseudo-islamici – proprio ora che sembrano davvero con le spalle al muro – una guerra tra Turchi e Curdi sarebbe una benedizione.
E a fare le spese di questa “benedizione” – in termini di nuovi osceni attentati alle nostre comunità – saremmo tutti noi occidentali.

Due considerazioni

L’America divisa: in America c’è un dibattito che divide la politica e la comunità intellettuale. Si noti bene che questa divisione è bipartisan, spacca al loro interno sia il Partito Democratico che quello Repubblicano. Molto brevemente.
Da una parte ci sono i teorici del disimpegno (non si può parlare di “isolazionisti” in senso stretto): costoro dicono che la diminuita potenza economica degli USA, insieme al bellicoso sorgere della potenza cinese (la Cina, ad esempio, minaccia di voler conquistare militarmente l’isola di Taiwan) ed alla rinascita della forza militare russa, creano una situazione per cui gli Stati Uniti non sono in grado di controllare l’intero pianeta. Dunque gli USA devono limitarsi a trovare un accordo, una specie di quieto-vivere, con la forza emergente cinese e la rinnovata forza militare russa. In particolare alcuni politici ed analisti suggeriscono che il grande medio-oriente sia uno dei teatri di confronto da cui gli Stati Uniti devono ritirarsi.
Dall’altra parte ci sono i teorici dell’“ordine liberale”. Per costoro l’America non deve rinunciare in nulla al suo grande gioco planetario, essi pensano che sia sempre valida la dottrina per cui ogni spazio vuoto lasciato dagli USA verrà riempito da potenze illiberali, le quali plasmeranno il mondo ad immagine del loro autoritarismo, con il risultato che né l’economia americana né la sicurezza dei cittadini americani saranno più al sicuro.
Quindi non diamo la colpa di tutto soltanto a Trump, finché l’America non uscirà da questa impasse, l’America sarà sempre debole ed indecisa in politica estera.

Interesse nazionale: le cose di cui fin qui si è scritto ci riguardano direttamente. L’occidente, e quindi anche l’Italia, ha un preciso interesse nazionale: la sconfitta del terrorismo islamico che ha insanguinato i nostri Paesi in questi anni.
C’è almeno un elemento di continuità tra Barack Obama e Donald Trump: gli ultimi due Presidenti USA hanno fatto campagna elettorale promettendo il ritiro dei soldati americani dalle missioni all’estero.
Obama ritirò le sue truppe dall’Iraq nel 2011, in quel momento i terroristi islamici erano in gravissima difficoltà, Abu Bakr al-Baghdadi  – il futuro capo dell’Isis – stava in galera a Camp Bucca, e gli altri dirigenti erano allo sbando. Il ritiro degli Americani permise ad al-Qaeda di riprendersi, poi da al-Qaeda nacque l’Isis; tre anni dopo, con l’Isis che governava un’area territoriale più vasta dell’Inghilterra ed era ormai alle porte di Baghdad, gli USA in Iraq son dovuti ritornare, nel frattempo ci sono state le stragi del Bataclan, di Nizza, dei mercatini di Natale in Germania, di Manchester, della Rambla di Barcellona etc.. Quelle stragi sono anche figlie della scelta fatta nel 2011 da Barack Obama.
Oggi Trump minaccia di ritirare le truppe dalla battaglia siriana contro l’Isis, e questo potrebbe essere l’errore di Obama ripetuto.

Il Presidente degli Stati Uniti può fare ciò che gli pare, è arbitro e padrone a casa sua. Quello che i Paesi dell’occidente non possono più fare, è pensare di continuare ad aspettare che mamma America ci tolga sempre le castagne dal fuoco. Se si creeranno dei “vuoti” in cui i terroristi potranno organizzarsi  toccherà all’Europa di prendersi le proprie responsabilità. Il secondo dopoguerra è davvero finito.
Prendersi queste responsabilità significherà nuove tasse per spese militari e ragazzi volontari tornati in patria in una bara. Non è una gran prospettiva, ma l’alternativa – nel nuovo quadro mondiale che si delinea – potrebbe essere rappresentata dal soccombere della nostra sicurezza, della nostra civiltà, della nostra libertà, per come le abbiamo sin qui conosciute.

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